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Una ragazza romana nella high school di Alanis Morissette

  • Immagine del redattore: Li majo libri
    Li majo libri
  • 16 apr 2018
  • Tempo di lettura: 4 min

Continuando con l'esplorazione dell'universo scolastico canadese.


Glebe Collegiate Institute – 6 settembre 2017, 8.50 am

glebe collegiate istitute

Secondo giorno di scuola. Pensavo non sarebbe mai arrivato ed invece eccomi qui, nel corridoio dell’ala destra, davanti alla porta dell’aula di fisica. Ho voglia di chiamare le mie amiche in Italia. Tanto da loro sono quasi le 3 di pomeriggio, magari qualcuna sarà anche libera e non avrà niente da fare… La campanella, troppo tardi. Certo però come è strana questa campanella! Meglio quella italiana. Niente ragioni strettamente patriottiche, questa sembra un citofono. Ecco la musichetta che ci dice di andare in classe. Chissà se la metteranno tuti i giorni o solo per questa settimana, per questo primo mese, per dare la carica agli studenti di rientro dal relax delle vacanze estive… La porta del laboratorio di fisica è ancora chiusa. Dei ragazzi che ho visto ieri al corso nemmeno l’ombra. Non che me li ricordi particolarmente bene, ma nessuno in corridoio sembra aspettare di entrare nell’aula 434. Ormai il corridoio si sta svuotando. Che faccio? Vabbè, questa sarà solo la prima di sei mesi di figuracce, tanto vale entrare. Certo però se si potesse evitare… Sono già le 8.55. Vabbè si dai. Entro.


“Goodmorning. Excuse me, I’m an exchange student and I take physics. Yesterday…”


“Hello Mr. Rivers and I trade classrooms. I’m Ms. Mill, this is my Chemistry class now. Let me help you.”


La professoressa che mi accoglie è una donna giovane, sulla quarantina. Bionda con gli occhi azzurri (Canadian, eh?). Il suo sorriso mi tranquillizza, si vede che è abituata a vedere alunni dispersi nei corridoi durante i primi giorni di lezione. Mi riconsegna la mia timetable corretta e mi dà qualche dritta su come arrivare alla nuova aula di Rivers.


La scuola qui è un labirinto. Quattro piani che girano intorno ad una rampa di scale posta al centro. Le aule hanno numeri dal 100 in su: la prima cifra per il piano, la seconda per il corridoio (destro, sinistro, nord, sud) e la terza per la posizione dell’aula rispetto al corridoio (all’inizio, centrale o alla fine). Fortunatamente la classe di Mr. Rivers non è lontana, in un minuto circa mi trovo davanti alla porta. Busso. Mi rendo conto che qui le porte sono tutte blindate e bussare è inutile quanto mettere il burro sul panettone (fidatevi, lo fanno), quindi tiro la maniglia di ferro. Ovviamente ognuno è già seduto al suo posto. C’è un po’ di brusio di sottofondo, nulla paragonato ai concerti da 80 Decibel della mia 4 AL back home. Preparata dai film americani alla ramanzina sul ritardo e all’aula di punizione, sono psicologicamente pronta ad essere assalita da un’ondata di sguardi incuriositi (ok si lo so, già state pensando “mamma mia che film mentali e tragedie”. Bene, vi sfido a mettervi voi per un momento nei miei panni. Anzi, nei panni di un sacco di ragazze e ragazzi che si trovano, per dovere o scelta, a trasferirsi in un altro paese. Dove l’amico o il conoscente più vicino si trova a 6725 km con un oceano di mezzo. Un paese di cui tutto quello che si sa è la posizione sulla cartina geografica. Ah, nel mio caso, che d’inverno si possono incontrare gli orsi polari alla fermata dell’autobus. Comunque, torniamo a noi). Questa mia fantasia di protagonismo, questa convinzione di essere al centro dell’attenzione per un attimo (anche se non proprio per un fatto positivo) si dissolve in una frazione di secondo.


Mr. Rivers mi saluta e poi mi indica la lavagna. I posti da oggi non saranno mai gli stessi, ogni due giorni si cambieranno in maniera random con il generatore di nomi. Sorrido, mi ricorda il metodo usato dalla prof di italiano per interrogare l’anno scorso. Unica differenza: per l’interrogazione ti puoi preparare, per stringere relazioni interpersonali no. Da una parte sono contenta: sarà più facile conoscere i miei compagni della classe di fisica e fare qualche amico più in fretta. Con un’occhiata rapida scorgo il mio nome, terza fila in fondo a destra. Leggo i nomi di quelli che saranno i miei compagni di banco per oggi e domani. Uno tipicamente English, sugli altri due ho qualche dubbio dovuto alla pronuncia. Chiederò una volta seduta.


Mi siedo. Sorriso a 32 denti e un “Hi!” per farmi coraggio. Tim e Yasser non alzano lo sguardo dal telefono. Amal invece mi fa un sorriso. Poi dice qualche parola. Incomprensibile, parla inglese con un fortissimo accento indiano, forse si è trasferito da poco in Canada. Exchange student sicuramente no, mi è stato comunicato che nella classe di fisica ci sarei stata solo io.


Amal sembra proprio uscito da un film bollywood: gelatina nei capelli e camicia da colori sgargianti. Con un’occhiata ci intendiamo, “che strani gli altri due

membri del nostro gruppetto”. Questione di pochi secondi e dagli alto parlanti della scuola riecheggia Oh Canada. È il momento di alzarsi in piedi, la mia seconda giornata scolastica canadese sta ufficialmente cominciando. I’m excited, aren’t you?



di Francesca Andrea Musella.

 
 
 

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